Nuovo costituzionalismo e multiculturalismo
di Vito Antonio Girardi
SUL COSTITUZIONALISMO E ALCUNE CRITICITÀ CONNESSE
Costituzionalismo, positivismo giuridico e diritto naturale
I disastri del secondo conflitto mondiale chiarirono all’umanità in quali labirinti l’uomo poteva perdersi estromettendo l’etica dall’agire collettivo e individuale, confermando le critiche di stampo giusnaturalistico rivolte ad Hans Kelsen (1881-1973) da Herman Heller (1891-1933) nel 1926, in Crisi della dottrina dello Stato (Quaglioni, 2004, pg. 101). E così da un lato si scelsero per i nuovi ordinamenti statali dei modelli di tipo costituzionale, che formalizzassero e limitassero la sovranità popolare, dall’altro si fece di fatto ricorso al concetto cristiano di diritto naturale dietro la locuzione «diritti inviolabili dell’uomo». Così facendo si riprese la riformulazione di Heller della natura della sovranità come «capacità di positivizzare delle norme giuridiche supreme, vincolanti la collettività» - secondo quanto scrisse nel 1927 in La sovranità (cfr. Quaglioni, 2004, pg. 104). In Italia un’analisi di questo tipo è stata fatta da Costantino Mortati (1892-1985) (ivi, pg. 114) rispetto all’articolo 2 della Costituzione. E un discorso analogo si può fare per la Germania, secondo quanto si può leggere nel discorso tenuto il 22 settembre 2011 da Papa Benedetto XVI al Bundestag:
Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.
Ma naturalmente nel discorso si analizza anche la situazione successiva, ovvero quella attuale:
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi… sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. […] Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità [corsivo nostro].
Dall’ultima frase emerge chiaramente il limite del paradigma kelseniano, ovvero che la necessità di non conferire valore morale alla norma non è frutto del procedimento descritto precedentemente e volto quindi alla salvaguardia degli orizzonti di senso dei vari gruppi umani, ma si presenta a sua volta come l’unico senso, non – valore che è valore. E infatti Kelsen spiega chiaramente che in una democrazia costituzionale gli individui di convinzioni diverse per vivere democraticamente dovrebbero essere consapevoli della relatività del loro credo, in particolar modo in ambito religioso (Kelsen, 2010, pp. 321-322):
Niebuhr cita la dichiarazione di Chesterton: «La tolleranza è la virtù di quelli che non credono a nulla». Questa dichiarazione è certo esagerata. La tolleranza è piuttosto la virtù di coloro in cui la convinzione religiosa non è abbastanza forte da sopraffare l’inclinazione politica, da esimerli dalla incoerenza di riconoscere la possibilità e legittimità di altre convinzioni religiose. Una ideologia religiosa della democrazia si basa proprio su questa incoerenza.
Ma, di fronte a questo limite, scegliere, invece, il paradigma giusnaturalistico in un quadro costituzionale significa esporsi alle molteplici interpretazioni che se ne possono avere, accettando di fatto poi il dominio della maggioranza di turno, e soprattutto significa non dare certe possibilità di esistenza a chi non condivide tale paradigma. L’altro rischio nel confronto tra valori morali che si vogliono imporre come valori a livello normativo è di non raggiungere maggioranze qualificate per riforme costituzionali e quindi di lasciare vuoti normativi, magari anche perché si segue il principio del non-intervento della politica nelle questioni etiche (Habermas, Taylor, 2008, pg.81).
Invece, forse, invocare la creazione di norme che rispettino le libertà e gli orizzonti di senso di tutti, senza che questo significhi riconoscere da un punto di vista normativo che le visioni abbiano tutte lo stesso valore, significa poter superare anche l’indolenza di chi non è disposto ad aperture presuntive. Infatti, alla radice di tale indolenza ci sono timori non infondati, di fronte ai quali l’unico rimedio è lasciare alla società la possibilità di contestazioni anche forti del valore delle norme di tutela di certi diritti. Scrive, infatti, Edith Stein (Stein, 1999, pp. 150-151):
Se le disposizioni del diritto positivo per il loro contenuto si contrappongono alla morale dominante, allora possono produrre, nell’ambito in cui esse valgono, un cambiamento nel comportamento tipico degli individui ed è possibile che sulla base di un comportamento pratico diverso si verifichi un mutamento della morale.
Costituzionalismo e Islam
Naturalmente, questo nuovo atteggiamento qui proposto, ovvero un nuovo costituzionalismo, presuppone che esso sia riconosciuto da tutte le parti in causa, mentre in Occidente ci si chiede ancora quanto la cultura islamica, che costituisce un interlocutrice fondamentale in questa partita, sia conforme innanzitutto al paradigma di una democrazia costituzionale. A tal proposito, Rawls cita uno studio di Abdullahi A. An-Na'im del 1990, tradotto nel 2011 per Laterza con il titolo Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell'Islam contemporaneo, a cura di Danilo Zolo, che sembra aprire nuove prospettive di interpretazione in tal senso. Scrive Rawls (Rawls, 2001, pp. 201-202, nota 46):
[…] Abdull Ahmed An-Na’im propone di rivedere l’interpretazione tradizionale della shari’a, la legge religiosa dei musulmani. Perché sia da questi accettata, la nuova interpretazione deve apparire come l’interpretazione corretta e più alta della shari’a. L’idea di fondo di An-Na’im riprende le tesi di uno studioso sudanese scomparso, Mahmud Muhamad Taha, e sostiene che l’interpretazione tradizionale della shari’a si rifarebbe agli insegnamenti di Maometto del tardo periodo medinese, mentre sarebbe la dottrina del primo periodo della Mecca a rappresentare il messaggio eterno e fondamentale dell’Islam. An-Na’im afferma che i superiori insegnamenti e principî del periodo meccano sono stati respinti a favore degli insegnamenti più realistici e pratici (nel contesto storico del VII secolo) del periodo medinese perché la società non era ancora pronta a realizzarli. Ma ora che le condizioni storiche sono cambiate, i musulmani dovrebbero interpretare la shari’a sulla base dei primi. In questa nuova interpretazione, la shari’a sosterrebbe, secondo An-Na’im, la democrazia costituzionale (Toward an Islamic Reformation: Civil Liberties, Human Rights, and International Law, Syracuse University Press, Syracuse, 1990, pp. 69-100).
In particolare, l’interpretazione della shari’a basata sugli insegnamenti del periodo meccano difende l’eguaglianza tra uomini e donne, e la piena libertà di scelta in materia di fede e religione, due valori conformi entrambi al principio costituzionale dell’eguaglianza di fronte alla legge. An-Na’im scrive: «Il Corano non cita il costituzionalismo, ma il pensiero e l’esperienza hanno dimostrato che senza di esso la realizzazione della società giusta e buona prescritta dal Corano è destinata all’insuccesso. Per i musulmani, è importante che l’Islam possa dare una giustificazione e un sostegno al costituzionalismo. I non musulmani possono avere le giustificazioni loro proprie, secolari o di altro tipo. Ma se tutti concordano sul principio del costituzionalismo e le sue regole, compresa la piena eguaglianza e la condanna della discriminazione sia di genere sia religiosa, non è importante che ciascuno di noi giunga a questo accordo per ragioni sue proprie» (ibidem, pg. 100). (Si tratta di un esempio perfetto di consenso per intersezione).
Ci sono, quindi, buoni presupposti, almeno teorici, per l’accoglienza da parte dei gruppi islamici della proposta qui presentata di un nuovo costituzionalismo.
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