Un libro rivela: "Pure Audrey si fece ritoccare"
di Stefano Zecchi
È proprio un peccato: il sogno poteva continuare e non avrebbe disturbato nessuno. Il sogno era la perfezione della femminilità, rappresentata da Audrey Hepburn.
Chi era un giovanotto di belle speranze nella prima metà degli anni Sessanta forse si ricorderà che c’erano, tra gli innumerevoli partiti politici, due chiari, precisi partiti estetici: quello che aveva per icona la burrosa, voluminosa Anita Ekberg che raffreddava i suoi bollori nell’acqua della Fontana di Trevi, e quello che si schierava per la esile, incantevole eleganza, per la dolcissima espressione dello sguardo da cerbiatta, per la seducente armonia di forme eteree di Audrey Hepburn.
Dagli aggettivi e dagli attribuiti che ho usato nel ricordare le due attrici, si capisce subito per quale partito fossi schierato. A quel tempo neppure si immaginava che il bisturi di un chirurgo potesse diventare una bacchetta magica in grado di trasformare il corpo della donna. La naturalezza era fuori discussione per il semplice fatto che non c’era possibilità di discussione. Quello che si vedeva e si lasciava immaginare del corpo di Anita era tutto suo, dono di madre natura. E la stessa cosa valeva ovviamente per Audrey. Ma chi parteggiava per l’attrice di Colazione da Tiffany aveva dalla sua quel mistero estetico che è l’assoluta semplicità trasformata in incantevole bellezza.
Insomma, troppo facile dire che Anita è bella con quel seno, quei fianchi, quelle gambe da valchiria e i suoi spumeggianti capelli biondi. Tu guardi Audrey, e la bellezza ti avvolge lentamente con larghe spirali che girano e si stringono intorno alla tua immaginazione: una bellezza semplice ma molto sofisticata, in cui la naturalezza all’acqua e sapone diventa una complessa armonia formale, assolutamente perfetta.
Ma, appunto, anche i sogni più innocenti svaniscono sotto lo sguardo crudele di chi non si accontenta di godere dell’immagine ma vuole andare oltre l’immagine stessa e capire come è stata costruita. In questi giorni, a Roma, si sta celebrando Audrey Hepburn con una mostra fotografica, 130 scatti inediti, video, oggetti, abiti. L’attrice è ritratta mentre cammina con i suoi cani, mentre accompagna i figli a scuola, mentre passeggia solitaria per una via di Roma. Immagini che celebrano la sua bellezza, che confermano la sua naturale eleganza. Ma esce a Londra un libro galeotto.
Sono raccolte dalla giornalista Sarah Gristwood le foto promozionali dell’attrice per il film Colazione da Tiffany. Agli inizi degli anni Sessanta, quando fu girato il film, non esistevano tutti quei marchingegni che servono oggi per modificare a piacimento le immagini di una foto. Eppure occhi esperti hanno scoperto che il volto di Audrey è stato ritoccato per quelle fotografie con l’aerografo, un intervento leggero, sufficiente per cancellare le «zampe di gallina» sotto gli occhi dell’attrice (aveva 32 anni) e migliorare i lineamenti del viso già perfetti.
Poca roba: se la si confrontasse con la pesantezza con cui si trasforma oggi l’immagine di chiunque, verrebbe da sorridere. Eppure le foto di Audrey per la promozione di Colazione da Tiffany sono le icone che resero immortale la bellezza della diva, e che erano soprattutto i punti di riferimento di chi una cinquantina d’anni fa combatteva coraggiose battaglie per la vittoria di Audrey su Anita.
Purtroppo, adesso bisogna ammettere che lo scontro era un pochino truccato: mettiamoci una pietra sopra, tanto non si danneggiava e non si faceva male a nessuno. Piuttosto si ha una conferma di come le donne siano sempre scontente della loro bellezza. Hanno sempre bisogno di qualcosa di più, di qualcosa che a tutti i costi possa rendere la bellezza ancora più bella. Ma l’asticella dell’estetica quando è troppo alta, rischia di cadere, e a questo punto si viene squalificati. Audrey, e chi curava la sua immagine dovevano accontentarsi, rispettando quell’idea di perfezione naturale che tutti noi, ragazzotti degli anni Sessanta, esaltavamo e difendevamo.