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I tre livelli dell'ontologia parmenidea

I tre livelli dell’ontologia parmenidea

di Massimo Pulpito

 

Tra i diversi inizi che sono stati attribuiti a Parmenide di Elea, uno di quelli su cui vi è maggiore consenso tra gli studiosi è l’avvio di quel ramo particolare della ricerca filosofica che chiamiamo ontologia. Si tratta, certamente, di una paternità problematica, tanto quanto lo è la nozione stessa di ontologia. La ragione di questa attribuzione è data dal fatto che Parmenide è il pensatore che ha introdotto la nozione di essere nella filosofia occidentale. E l’ontologia, nell’accezione più larga e meno caratterizzata, è, appunto, la scienza dell’essere. In realtà, Parmenide ha un primato soprattutto di carattere lessicale, giacché egli fu il primo a porre al centro della riflessione proprio le due parti del termine seicentesco ‘ontologia’, da un lato l’on (nel dialetto ionico di Parmenide, eon), l’ente, e dall’altro, il logos, il discorso argomentato.
Questo basta per poter dire che nei frammenti dell’opera di Parmenide sia rinvenibile una compiuta teorizzazione di tipo ontologico? Evidentemente no. Per l’auroralità delle sue tesi, per il fatto che egli affrontava problemi che non sono più i nostri, e per le oggettive difficoltà d’interpretazione del suo pensiero, è necessario avere cautela nell’attribuire a Parmenide l’elaborazione di un’ontologia nel senso contemporaneo (se pure si può parlare di un senso), cioè volta a rispondere ai problemi che affronta l’attuale riflessione ontologica, consapevole dei confini che dividono le diverse discipline e provvista di un lessico specifico. La disinvoltura in questo senso condurrebbe dritti nelle trappole dell’anacronismo. Cionondimeno, è tutt’altro che irragionevole pensare che nella concezione parmenidea della realtà si celi quella che noi riconosciamo come un’ontologia più o meno strutturata, e non è quindi inutile tentare di portarla alla luce.
Per farlo, dobbiamo dare per assunti due presupposti. Il primo è che per ontologia intendiamo la disciplina che si occupa di ciò che esiste. Tra i vari sensi con cui questa parola è stata utilizzata nelle diverse tradizioni, noi scegliamo quello che la qualifica come descrizione delle classi di oggetti che costituiscono l’‘arredo’ dell’universo. Il secondo presupposto riguarda l’interpretazione di Parmenide. Tra gli studiosi del poema parmenideo (testo in cui coesistono argomentazione rigorosa, narrazione mitica, teologia tradizionale e teoria fisica, in un intreccio che mette a dura prova gli interpreti) il consenso è l’eccezione, e anche lì dove lo si raggiunge, tale accordo verte quasi sempre su questioni di dettaglio (cioè convive con il disaccordo su molti altri punti), tanto che è pressoché impossibile disegnare precisi fronti interpretativi. Per questo non sarà possibile proporre una presentazione dell’‘ontologia’ parmenidea, partendo dai punti fermi dell’interpretazione del poema: gli unici punti fermi sono infatti le parole stesse di Parmenide (e nemmeno tutte, visti i numerosi problemi ecdotici che pongono i frammenti conservati). La ricostruzione che segue non potrà che essere parziale, esprimendo il punto di vista (non arbitrario) di chi scrive. Ciononostante, si cercherà di tenere conto, laddove è possibile, delle interpretazioni maggioritarie, e di giustificare le tesi che verranno presentate, sia da un punto di vista argomentativo (cioè mostrandone il più possibile la coerenza con l’insieme delle tesi di Parmenide), sia da un punto di vista testuale (facendo diretto riferimento ai versi a noi pervenuti o alle testimonianze posteriori)...
Mi preme ribadire in apertura di questo studio, che esso non è dedicato al poema e al pensiero di Parmenide in tutti i loro aspetti e problemi. Inevitabilmente verranno tagliate fuori tantissime cose, e non saranno presi in esame passaggi cruciali, questioni testuali dirimenti, così come importanti aspetti del suo pensiero (certamente non meno importanti del tema di cui mi occupo qui), per non parlare delle numerose interpretazioni alternative sostenute dagli studiosi. Questo perché, se ha senso parlare di ontologia a proposito del poema parmenideo, non bisogna dimenticare che questo resta soltanto uno degli aspetti della sua opera. Molte delle polemiche tra gli studiosi nascono proprio da dimenticanze come queste.


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Ipse dixit  
  "Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta" (Friedrich Nietzsche) *** "Io ho un solo amico, è l'eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace". (Soren Kierkegaard) *** "Un grande uomo costringe gli altri a spiegarlo" (Georg Wilhelm Friedrich Hegel) *** "Il mondo non è nè vero nè reale, ma vivente" (Gilles Deleuze) *** "Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d'essere scesi sul fondo dell'abisso, ma quando risaliamo, le gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono. Crediamo d'avere scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra, intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato". (Maeterlinck)  
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