PROSPETTIVE DI DEMOCRAZIA E SOVRANITÀ A PARTIRE DALLE POSIZIONI TEORETICHE DI KELSEN E DALLA SUA RIFLESSIONE SULLA URNORM
di Vito Antonio Girardi
Un’analisi del pensiero del giuspositivista più importante del Novecento non può fare a meno di soffermarsi sulla ricerca degli assunti impliciti ed espliciti che sono a fondamento dell’ambizioso proponimento dell’autore (1881-1973), che non fu quello di dimostrare che il modello democratico fosse il più efficace per garantire l’interesse dello Stato, bensì consistette nel tentativo di presentare una descrizione che voleva essere neutra, scientifica, dell’ordinamento democratico. Scrisse, infatti (I fondamenti della democrazia, in La democrazia, Il Mulino, 2010, ed. or. 1955-56, pg. 193):
«Poiché non solo la democrazia, ma anche il suo opposto, l’autocrazia, può essere un governo per il popolo, tale qualità non costituisce un elemento per definire la democrazia stessa. Anche per questa ragione è erronea la dottrina secondo cui la democrazia presuppone il credo nell’esistenza di un bene comune, obiettivamente determinabile, che il popolo è in grado di conoscere e, di conseguenza, di rendere oggetto della propria volontà».
E ancora (ivi, pg. 255):
«Il problema della democrazia non è quello del governo più efficiente (…). Esso invece è il problema di un governo che garantisca la maggiore libertà individuale possibile».
E in questa analisi si è confrontato con le varianti storiche passate e contemporanee sia degli ordinamenti definiti democratici o delle teorie della democrazia, sia degli ordinamenti autocratici o delle teorie della rivoluzione, tentando di sottolineare come la democrazia sia la migliore garanzia per la pace e la difesa della libertà della minoranza, all’interno di un ordinamento – come quello da lui delineato – in cui (Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, Il Mulino, 2010, ed. or. 1929, pp. 122-123):
«(…) l’idea di legalità, quantunque porti ad una restrizione della democrazia, deve essere mantenuta per assicurare la realizzazione della democrazia stessa, si debbono chiedere per la democrazia tutte quelle istituzioni di controllo che garantiscono la legalità dell’istituzione e che solo una demagogia di veduta limitata respinge come inconciliabili con l’essenza della democrazia. […] La democrazia senza controllo è, a lungo andare, impossibile».
Da qui il ruolo fondamentale della Costituzione. La necessità di soffermarsi sui fondamenti teoretici della democrazia emerge proprio in questo punto dell’analisi, quando Kelsen si chiede «quale contenuto il popolo dovrà dare alle leggi fatte da lui stesso» (ivi, pg. 146).
Occorre allora considerare che per Kelsen la società è composta da due tipologie psicologiche di individui; infatti parla del tipo democratico di personalità, che «considera come essenziali le innegabili differenze che esistono tra sé e gli altri», ma allo stesso tempo si sente «almeno in linea di principio, uguale al tu», ovvero «il tipo altruistico», che aderisce ad una filosofia relativistica, e che ha una bassa attitudine verso il problema del governo essendo bassa l’«intensità della sua volontà di potenza». Dall’altro lato presenta, al contrario, colui che ha «un’esagerata coscienza di sé», che «aumenta la consapevolezza di sé identificando se stesso con il suo super ego, l’ego ideale», che «trova la felicità nell’ubbidire non meno che nel comandare. Identificarsi con l’autorità, questo è il segreto dell’obbedienza» (I fondamenti della democrazia, in op. cit., pp. 242-244).
Alla luce di questo, si comprende perché per Kelsen occorrano i vincoli legali prima menzionati all’attività della politica. Infatti, da un lato occorrerebbe che tutti, in un compromesso tra maggioranza e minoranza, costruiscano delle norme che siano valide, abbiano valore, per tutti, dall’altro, perché si sia pronti al compromesso, per Kelsen ciò presuppone che tutti mettano in discussione le proprie posizioni, convinti che esse non costituiscano verità assolute. Si può leggere ancora (ivi, pp. 148-149):
«Alla concezione del mondo metafisico-assolutista si ricollega un’attitudine autocratica, mentre alla concezione critico-relativistica del mondo si ricollega un’attitudine democratica. Chi ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone».
Tanto che Mauro Barberis parla in proposito di «una concezione che si candida come adeguata all’epoca del crepuscolo degli idoli e del politeismo dei valori» (La democrazia, cit., pg. 31).
Ma Kelsen si rendeva conto che non si poteva sperare in quel contesto storico che tutti aderissero ad una filosofia relativista, e, per evitare che il compromesso sociale, quand’anche fosse stato raggiunto, fosse solo il frutto di una volontà contingente in vista dell’utile momentaneo dei più, propose, almeno inizialmente, di considerare la Costituzione, la UrNorm, come un presupposto del pensiero, inteso di fatto in senso liberale.
Questo per Kelsen significava eliminare il problema della sovranità, ovvero di chi fosse giusto che la detenesse. Problema fino ad allora determinante nella discussione politica nel periodo della crisi dello Stato ottocentesco, ma anche della lacerazione sociale nel contesto del multipartitismo. In tal modo la proposta di Kelsen si configura come contrapposta a quella di Carl Schmitt, per il quale, invece, occorreva mettere nuovamente in evidenza la sovranità, il posto del sovrano, in un contesto in cui il potere decisionale era per lui troppo limitato dai controlli della legalità invocati da Kelsen.
Tutto questo fa dire a Mauro Barberis che «quella di Kelsen è una concezione liberale della democrazia» (ivi, pg. 38). Kelsen scrisse a proposito (I fondamenti della democrazia, in op. cit., pg. 196):
«È importante rendersi conto che il principio democratico e quello liberale non si identificano e che tra loro esiste, anzi, un certo antagonismo. Infatti, secondo il primo il potere del popolo è illimitato (…). Questa è l’idea della sovranità del popolo. Il liberalismo, invece, significa limitazione del potere governativo, qualsiasi forma il governo possa assumere, e significa anche limitazione del potere democratico».
E ancora (Essenza e valore della democrazia, op. cit., pp. 150-151):
«Coloro che si appoggiano soltanto sulla verità terrestre, coloro pei quali la conoscenza umana assegna i fini sociali, possono giustificare l’uso inevitabile della costrizione per la realizzazione di questi scopi soltanto dietro consenso almeno della maggioranza di coloro a cui l’ordine restrittivo deve assicurare la felicità. E quest’ordine costrittivo deve essere organizzato in modo tale che anche la minoranza, la quale non è completamente nell’errore né assolutamente priva di diritti, possa in ogni momento divenire maggioranza».
Prima di soffermarsi ulteriormente sulla questione della sovranità, occorre focalizzare meglio la posizione teoretica di Kelsen.
Infatti essa risulta determinante per la sua riflessione politica. E lo si evince dall’interpretazione che Kelsen dà della filosofia kantiana (ivi, pp. 148-149, nota 1):
«la posizione di Kant è del tutto particolare. Si è soliti qualificare il suo sistema di idealismo, opponendolo al positivismo. Ma ciò è inesatto. L’idealismo kantiano è già positivista a causa del suo carattere critico. La filosofia trascendentale […] dovrebbe, pensata logicamente fino in fondo, condurre anche sul terreno della filosofia dei valori ad un rifiuto di ogni Assoluto metafisico, a teorie relativistiche. […] Il sistema morale e politico di Kant ha un orientamento interamente metafisico e la sua filosofia pratica, con la sua teoria dello Stato e del diritto monarchica e conservatrice, è perciò completamente diretta a stabilire valori assoluti».
Ed egli scrisse (I fondamenti della democrazia, op. cit., pg. 243):
«L’oggetto della conoscenza è, per l’assolutismo filosofico, indipendente dal soggetto totalmente determinato nel suo conoscere da leggi eteronome. L’assolutismo filosofico può essere molto ben definito come totalitarismo epistemologico».
Mentre, al contrario (ivi, pg. 224) :
«(…) l’epistemologia relativistica, secondo la più autorevole interpretazione datane da Kant, interpreta il processo della conoscenza come creazione del proprio oggetto».
Fu attento, però, a specificare che «Ciò non significa naturalmente che il processo conoscitivo abbia carattere arbitrario» (ivi, pg. 224), e si rese conto dei rischi che la sua teoria comporterebbe, di fronte ai quali propone una soluzione (ivi, pg. 225):
«Lo specifico carattere della teoria relativistica della conoscenza implica due pericoli. Il primo è un solipsismo paradossale, (…) la negazione egotistica del tu. […] Il secondo pericolo è un pluralismo non meno paradossale, […] tanti mondi quanti sono i soggetti coscienti. Il relativismo filosofico evita deliberatamente sia il solipsismo che il pluralismo. Considerando come vero relativismo le mutue relazioni tra i vari soggetti della conoscenza, questa teoria compensa la propria incapacità ad assicurare l’esistenza oggettiva di un mondo unico ed uguale per tutti i soggetti con l’assunto che gli individui, come soggetti della conoscenza, sono uguali. Tale assunto implica anche che i vari processi di conoscenza razionale che hanno luogo nella mente dei soggetti sono, diversamente dalle loro reazioni emotive, uguali. Ciò rende possibile un ulteriore assunto, secondo il quale gli oggetti della conoscenza (…) sono conformi gli uni agli altri. […] il soggetto cosciente è libero non in modo assoluto, ma relativo, è libero sotto le leggi della conoscenza razionale».
E il senso e le conseguenze di questo ragionamento emergono più chiaramente considerando che (ivi, pp. 223-224):
«Il relativismo filosofico, d’altra parte, come empirismo antimetafisico (o positivismo), insiste su di una netta separazione tra realtà e valore, distingue tra proposizioni relative al reale e genuini giudizi di valore che, in ultima analisi, non sono basati su una razionale conoscenza della realtà, ma sui fattori emotivi della coscienza umana, sui desideri e i timori dell’uomo».
L’ultimo tassello che resta da analizzare per capire perché per Kelsen occorreva togliere la volontà, e quindi la questione della sovranità, dalla discussione politica, è l’individuazione di ciò che per l’autore sarebbe la libertà (ivi, pg. 229):
«L’antropologia metafisica considera la libertà umana, intesa in questo senso, come un attributo essenziale dell’uomo in quanto membro della società, vale a dire soggetto ad obblighi e responsabilità. […] Questa teoria – il cosiddetto indeterminismo – è decisamente respinta da una filosofia razionalistica e antimetafisica (…) per l’inammissibile contraddizione interna consistente nell’assunto che un fenomeno della realtà naturale, come la volontà umana, è esente dalla legge di causalità che costituisce la realtà naturale stessa».
Al contrario, seguendo la sua linea interpretativa (ivi, pg. 230):
«(…) vediamo che l’uomo è responsabile delle sue azioni (…) perché egli è libero – in senso razionale – in quanto è responsabile. […] Se il comportamento dell’uomo, e ciò significa in ultima analisi la sua volontà, non fosse determinabile da cause precise, sarebbe privo di significato un ordinamento normativo che lo regolasse prevedendo punizioni e premi».
Insomma, se questa è la natura della volontà, e se, d’altronde, come abbiamo visto all’inizio, i cittadini non possono nemmeno identificare razionalmente il bene comune, la volontà e la sovranità perdono il loro motivo di esistere come soggetti di un’ordinata vita politica dello Stato, perché spesso, piuttosto, vi si contrapporrebbero.
Allo stesso modo, Kelsen rifiuta l’applicazione del concetto di sovranità assoluta degli Stati nel contesto internazionale (ivi, pg. 258):
«Questa teoria politica non porta a fare dello Stato un assoluto, ma, al contrario, a crederlo relativo. Essa denuncia il concetto di sovranità come l’ideologia di una determinata politica di potere e perciò nega che questo concetto sia applicabile ad una descrizione scientifica della realtà politica o giuridica. Dimostrando che la sovranità assoluta non è e non può essere una qualità essenziale dello Stato esistente a lato di altri Stati, essa rimuove uno dei più radicati pregiudizi che impediscono alla scienza politica e giuridica di riconoscere come possibile un ordinamento giuridico internazionale costituente una comunità internazionale della quale lo Stato è membro, così come i consigli municipali sono membri dello Stato».
Cosa che non sarebbe possibile se la condotta dello Stato sovrano nelle sue relazioni con altre comunità statali si basasse solo «sul riconoscimento, e quindi sulla volontà, dello Stato sovrano» (ivi, pg. 257) dell’esistenza legale come Stati di esse e dell’ordinamento normativo che regola quella condotta.
In realtà, al di là dei testi analizzati, le riflessioni di Kelsen, volte a trovare i modi opportuni perché sia il singolo Stato che la comunità internazionale godessero di un ordinamento costituzionale, hanno incontrato ostacoli teorici e reali di fronte ai quali talvolta lo stesso pensiero dell’autore è mutato. Tutta la riflessione fin qui affrontata, ad esempio, si è dovuta scontrare con le strenue opposizioni del giusnaturalismo. Del resto, secondo l’analisi di Alf Ross (1899-1979), allievo di Kelsen, ma poi massimo esponente del realismo scandinavo, la riflessione kelseniana aveva lasciato in eredità ai modelli costituzionali il nesso norma-valore, appartenente al giusnaturalismo. Scrive Ross, criticando Kelsen (Direttive e norme, trad. di Mario Jori, Edizioni di Comunità 1978, ed. or. 1968, pp. 228-231):
«Hans Kelsen ha sostenuto fino a poco tempo fa come uno dei punti centrali della sua teoria del diritto, che il principio di non contraddizione si applica universalmente, cioè indipendentemente dal fatto che la norma appartenga o meno a differenti sistemi o tipi di norme. ‘È contraddittorio’, diceva Kelsen, ‘sostenere che la norma A (come norma morale) e la norma non-A (come norma giuridica) siano valide contemporaneamente […]’ (General Theory of Law and State)».
Cita, poi, un suo articolo scritto nel ’61 (Validity and Conflict between Legal Positivism and Natural Law (‘Revista Juridica de Buenos Aires’, 1961, p. 46 ss.) (ibidem):
«“Secondo Kelsen, l’esistenza di una norma è la sua ‘validità’ e che una norma abbia validità significa ‘che gli individui devono comportarsi come la norma stabilisce’.
(…) questa interpretazione (…) deve essere considerata come una sopravvivenza della filosofia del diritto naturale di tipo quasi-positivistico”.».
Dopo di che cita un testo di Kelsen del 1963, che ne chiarisce i ripensamenti finali (Österreichische Zeitschrift für öffentliches Recht) (ibidem):
«“(…) non c’è alcun genere di parallelismo o analogia tra la verità di una proposizione e la validità di una norma. Sottolineo questo, in deliberato contrasto con un’opinione comunemente accettata, e accettata anche da me per lungo tempo” (p. 2)».
«“In lavori precedenti ho parlato di norme che non sono il contenuto di significato di un atto di volontà. Nella mia dottrina, la norma fondamentale è stata sempre considerata come una norma che non è il contenuto di significato di un atto di volontà, ma è presupposta dal pensiero. Ora, signori, devo confessare che non posso più mantenere questa dottrina e devo abbandonarla. Potete credere che non è stato facile lasciar cadere una dottrina da me difesa per decenni. L’ho abbandonata rendendomi conto che una norma (Sollen) deve essere il correlato di una volontà (Wollen) La mia norma fondamentale è una forma fittizia basata su un atto di volontà fittizio… Nella norma fondamentale viene concepito un atto di volontà fittizio, che in realtà non esiste” (pp. 119-120)».
E nel 1965 in Recht und Logik (in Klecatsky H., Marcic R., Schambeck H., Die Wiener rechtstheoretische Schule, Wien et al.: Europa Verlag, Salzburg-München: Universitätsverlag A. Pustet, 1968: vol. 2 p. 1472) scrisse:
«Il vero ed il non-vero sono attributi di una affermazione, il fatto della vigenza non è al contrario un attributo della norma, ma della sua esistenza, della sua esistenza ideale. Che una norma è in vigore significa che esiste».
Per Kelsen, insomma, se una norma, anche la norma fondamentale, è valida, è perché essa esiste, e ciò significa che, perlomeno in senso fittizio, essa è stata voluta. E se parlava di atto di volontà fittizia era perché l’analisi del pensiero di Rousseau fatta già precedentemente aveva dimostrato i rischi di un contratto sociale costituito per accordo della volontà di tutti. Scriveva già in I fondamenti della democrazia (in op. cit., pp. 233-234):
«Tuttavia, anche un apostolo della libertà così radicale come Rousseau richiede l’unanimità solo per il contratto originale che costituisce lo Stato. […] Se il principio di libertà richiede l’unanimità per la conclusione del contratto costitutivo, perché libertà significa essere legati solo dal proprio volere, ne consegue che è coerente richiedere il consenso unanime degli individui soggetti all’ordinamento normativo stabilito dal contratto anche come condizione successiva del permanere della validità di tale ordinamento, sicché ognuno è libero di ritirarsi dalla comunità, che l’ordinamento stesso costituisce, appena rifiuti di riconoscerne la forza cogente. […] l’ordinamento sociale (…), per sua natura, è possibile solo se la sua validità non dipende, fino ad un certo grado, dalla volontà di coloro che vi sono soggetti».
Kelsen, quindi, è stato costretto a ribaltare la sua posizione, in maniera molto rischiosa, tanto che per Ross la logica conseguenza di questi successivi ripensamenti sarebbe che «la dottrina della norma fondamentale va abbandonata» (Direttive e norme, cit., pg. 231).
Se si riprendono i testi citati di Ross e di Kelsen, ci rende conto che quel nesso norma-valore aveva in Kelsen due dimensioni. Una, che è quella poi corretta dall’autore nei termini che abbiamo visto, era quella che collegava ad un contenuto di pensiero in quanto razionale una validità giuridica. Occorre, però, precisare che Kelsen faceva riferimento già allora ad una razionalità relativa, tanto che in I fondamenti della democrazia scriveva (in op. cit., pg. 198):
«Io posso lottare e morire senza riserve per la libertà che la democrazia è capace di attuare, anche se posso ammettere che dal punto di vista della scienza razionale il mio ideale è soltanto relativo. Schumpeter dice molto giustamente: “Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro è il rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza indietreggiare” [Capitalism, Socialism, Democracy, New York e London, 1942, pg. 243]».
Alla luce, però, delle contraddizioni del ragionamento kelseniano sulla UrNorm, emerge che Kelsen, parlando di atto di volontà fittizio che sancisce una norma fondamentale fittizia, propone una nuova forma di diritto precostituito. Per valutare in che misura ciò sia accettabile, occorre tener conto della seconda dimensione del nesso norma-valore, che emerge nel primo brano citato del testo di Ross, e che riprende le tesi esposte da Kelsen nel 1945 nella Teoria generale del diritto e dello Stato; lì si sostiene che se gli individui sono soggetti ad un obbligo, non possono essere soggetti contemporaneamente ad un altro obbligo che contraddica il primo. Ovvero l’obbligo giuridico esclude che siano validi contemporaneamente obblighi morali in contraddizione. Ora, è chiaro che un conto è che un modello costituzionale imponga sanzioni alle violazioni delle libertà dei cittadini, come Kelsen propone (Enciclopedia filosofica, Bompiani, 2011, vol. 15, § Sanzione, pg. 10057), un altro che le tuteli per esempio con forme di welfare. In quest’ultimo caso, poiché tutti i cittadini contribuiscono ad esso mediante l’imposizione fiscale, è necessario che da parte di ognuno ci sia un riconoscimento della tutela della libertà altrui. Per questo tali forme di tutela non dovrebbero essere inserite nella norma fondamentale, ma affidate all’eventuale attività legislativa