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Nuovo costituzionalismo e multiculturalismo IV

Nuovo costituzionalismo e multiculturalismo
di Vito Antonio Girardi




MULTICULTURALISMO E SISTEMA ECONOMICO

 In ogni caso, la già citata apertura presuntiva verso la cultura altrui proposta da Taylor, combinata con la più ampia possibilità di discussione, sembra essere l’approccio migliore per evitare che la società si “etnicizzi”, ovvero che si produca ciò che prospetta come possibilità concreta Ugo Fabietti (Fabietti, 1998, pg. 121):

 […] una giustapposizione di culture capaci forse di «mimare un dialogo, limitandosi di fatto a una giustapposizione di monologhi» (Lombardi-Satriani L. M., Il rapporto identità-alterità, 1994).  

 Perché questo avvenga occorre evitare che ai vari gruppi vengano riconosciuti privilegi o sussidi economici volti a preservare le possibilità di stili di vita tradizionali, rivendicati come parte integrante della propria cultura, e che l’attuale sistema economico metta a rischio. Infatti Fabietti descrive bene come queste pratiche solidifichino identità fluide, poiché certi modelli culturali non solo vengono scelti talvolta da chi fa parte di determinati gruppi per i vantaggi economici connessi, ma attirano proprio per questo anche soggetti provenienti da altri contesti culturali originari (ivi, cap. 5). Fare questo da parte dello Stato significa far sì che si inacerbiscano i rapporti tra le parti sia perché spesse non tutte godono degli stessi diritti, sia perché le concessioni economiche presuppongono un riconoscimento di valore più pieno di quelle solamente giuridiche.
D’altra parte, è indubitabile che l’attuale sistema economico abbia prodotto una “mutazione antropologica”, come scriveva Pasolini. Oggi, in particolare, il capitalismo finanziario ha assunto una dimensione totalizzante rispetto alla vita dell’uomo, non lasciandogli molte libertà di scelta di vita in vista della propria sopravvivenza. In particolare, la competizione estrema sembra essere una condizione che in molti contesti, prima di essere scelta dai soggetti tra i propri modi d’essere, è richiesta dallo stesso contesto lavorativo; e ciò non può non produrre lacerazione sociale e una maggiore facilità di abbandono di valori etico – culturali di appartenenza, in quanto spesso incompatibili con le proprie aspirazioni lavorative. Jeremy Rifkin sottolinea come questa realtà finora abbia caratterizzato soprattutto gli Stati Uniti (Rifkin, 2010, pg. 461):

 Negli Stati Uniti, dove il materialismo rampante nel corso degli ultimi venticinque anni è diventato una sorta di epidemia nazionale, la fiducia negli altri è precipitata: a metà degli anni Sessanta, il 56% degli americani affermava che ci si potesse fidare degli altri; oggi, lo fa meno di un terzo. Al contrario, nell’Europa continentale, dove il materialismo è meno spiccato, i livelli di fiducia sono aumentati in alcuni paesi e non sono diminuiti in altri.

Altro problema simile è costituito dai ritmi frenetici di vita e di lavoro che contraddistinguono paradossalmente proprio le società in cui lo sviluppo tecnologico consente di svolgere la maggior parte delle cose in un tempo più rapido che in passato. Questi ritmi spesso non consentono o rendono molto difficili, ad esempio, pratiche religiose proprie di molti gruppi religiosi delle nostre società. Naturalmente, per qualcuno questo stato di cose può rappresentare una sfida perché gli individui dimostrino la loro effettiva e incondizionata aderenza ai propri modelli di riferimento. Ma l’attuale modello economico è così totalizzante da colonizzare in misura crescente persino l’immaginario dei minori, rendendo molto più difficile l’educazione da parte dei genitori.
Questi esempi chiariscono che anche in questo caso è la libertà dei cittadini ad essere in molti casi schiacciata o messa a rischio, e che allo stesso tempo non si può lasciare alla scelta della maggioranza il sistema economico da adottare, in quanto la scelta del capitalismo finanziario nelle forme attuali pregiudica le possibilità della minoranza di condurre forme autonome e altre di vita. È vero, però, che, se uno Stato lasciasse totalmente ai singoli e ai gruppi la scelta di come vivere la propria vita dal punto di vista economico, chi scegliesse il modello capitalista ne uscirebbe molto indebolito e penalizzato nella competizione con i concorrenti degli Stati che non abbiano adottato lo stesso tipo di politiche. Una scelta di questo tipo, infatti, presupporrebbe molti vincoli sull’inquinamento, sulla costruzione di impianti industriali, e soprattutto sulla costruzione di infrastrutture. Se la ricchezza prodotta negli Stati ne risultasse così molto ridotta, ciò provocherebbe tagli alla spesa pubblica, che prima o poi provocherebbero il crollo del sistema di Welfare State, nato, infatti, con lo sviluppo del capitalismo. Così, paradossalmente, si ridurrebbero le qualità che finora hanno reso molte società occidentali attrattive per i popoli migranti. È ovvio che di fronte a tali prospettive sono in pochi a voler rinunciare agli standard di vita raggiunti in Occidente; e di fronte ai problemi prima analizzati rispetto alla dimensione totalizzante del capitalismo finanziario, si preferisce invocare, come fa l’economista Luigino Bruni, una riduzione del peso dell’economico nelle nostre vite.
Occorre anche tener presente, però, che le pratiche economiche delle società industrializzate o in via di industrializzazione sono oggi imputate di progressivi cambiamenti climatici dannosi per l’esistenza di molte specie viventi e dell’uomo stesso, cosicché taluni vedono come unico orizzonte economico possibile quello della decrescita. Latouche invoca la distruzione della società industriale (ivi, pg. 120),  auspicando che si diffonda il “catastrofismo illuminato” di cui parlava Jean-Pierre Dupuy, che scriveva (ivi, pg.180):

 La catastrofe ha quel qualcosa di terribile che non solo non crediamo possa realmente accadere, anche se siamo consapevoli che accadrà, ma una volta prodottasi, apparirà come parte dell’ordine normale delle cose. La sua stessa realtà la rende originaria. Se prima che accadesse non era considerata possibile, a cose avvenute è integrata senza altra forma di mediazione all’interno del ‘mobilio ontologico’ del mondo, per dirla in termini filosofici. […] Questa metafisica spontanea del tempo delle catastrofi è il più grande ostacolo alla prudenza necessaria all’epoca attuale […].

 Mentre per l’attuazione di questi suoi obiettivi scrive (ivi, pg.103):

 La difficoltà di questo necessario cambiamento di valori sta nel fatto che l’immaginario dominante è sistemico. Ciò significa che i valori attuali sono suscitati e incoraggiati dal sistema (in particolare economico) e che questi a loro volta contribuiscono a rafforzarlo. È necessario dunque spingersi oltre e mettere in discussione ciò che sta dietro a questo sistema che attribuisce propri specifici significati al tempo, allo spazio, alla vita, alla morte ecc..

 E (ivi, pp. 122-123):

 L’eliminazione dei capitalisti, l’abolizione della proprietà privata dei beni di produzione, l’abolizione del rapporto salariale o della moneta farebbero precipitare la società nel caos e provocherebbero un terrorismo collettivo. Tutto questo non sarebbe sufficiente ad abolire l’immaginario capitalistico, anzi produrrebbe effetti opposti.

Perché parlare ancora di moneta e di “mercati” per costruire una società del doposviluppo? Perché queste “istituzioni”, identificate un po’ frettolosamente come componenti del capitalismo, non sono in sé degli ostacoli. In molte società umane esistono il mercato (in particolare in Africa), la moneta e, naturalmente, il profitto commerciale e finanziario e in una certa misura industriale (che sarebbe meglio definire “industrioso” quando si tratta di artigianato). All’interno di queste società esiste anche la forma di remunerazione del lavoro che noi chiamiamo “lavoro salariato”. Tuttavia, questi rapporti “economici” non sono dominanti né nella produzione, né nella circolazione di “beni e servizi” e, soprattutto, questi aspetti non sono articolati tra loro in modo tale da “fare sistema”. Queste non sono né società di mercato, né società del lavoro salariato, né società industriali, e sono ancora meno società capitalistiche, per quanto possano essere presenti al loro interno il capitale e i capitalisti. L’immaginario di queste società è così poco colonizzato dall’economia che fanno economia senza saperlo.
Latouche presenta anche un programma di transizione in nove punti (ivi, pg.169):

 1) Tornare a un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero a una produzione materiale equivalente a quella degli anni sessanta-settanta.
2) Internalizzare i costi dei trasporti.
3) Rilocalizzare le attività.
4) Ripristinare l’agricoltura contadina.
5) Trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi, fino a quando esiste la disoccupazione.
6) Incentivare la “produzione” di beni relazionali.
7) Ridurre lo spreco di energia di un fattore 4.
8) Penalizzare fortemente le spese per la pubblicità.
9) Decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni.  

 Dunque non solo la lotta contro i cambiamenti climatici e la salvaguardia della libertà richiederebbe alle società occidentali un arretramento economico, ma allo stesso tempo imporrebbe delle pesanti conseguenze per le economie dei Paesi in via di  sviluppo. Ma come equilibrare questi compiti tra i popoli?
In verità, ci sono impostazioni molto più ottimistiche, come quella di Rifkin, che confida nella capacità della società civile dei vari Stati di fare pressioni sui governi affinché vengano sostenute politiche in grado progressivamente di svincolare le economie dai combustibili fossili, il cui massiccio consumo odierno è imputato di essere tra le cause fondamentali dei cambiamenti climatici. Anzi, secondo Rifkin (Rifkin, 2010, pg. 482):

 Introducendo quote minime destinate alle energie prodotte da fonti rinnovabili, promuovendo il concetto di fabbricati in grado di produrre l’energia che consumano, e finanziando un aggressivo piano di ricerca e sviluppo nel campo delle tecnologie legate all’idrogeno, l’Unione Europea ha eretto i primi tre pilastri della Terza rivoluzione industriale. Il quarto consiste nella riconfigurazione della rete elettrica sulla falsariga della rete Internet, così da permettere a famiglie e imprese di produrre la propria energia e condividerla con altri, attraverso sistemi attualmente in corso di sperimentazione presso società di distribuzione energetica in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina e in altri paesi.

E secondo l’autore le complesse modifiche del sistema economico che la Terza rivoluzione industriale sta portando sono foriere di un mutamento antropologico inverso rispetto a quello prodotto dalla Seconda rivoluzione industriale (ivi, pg. 493):

 L’attività economica non è più un duello fra venditori e compratori agguerriti ma è, piuttosto, un’impresa collaborativa fra attori che la pensano nello stesso modo. La classica idea economica che il beneficio dell’uno corrisponda al danno dell’altro è sostituita dall’idea che il benessere degli altri amplifica il proprio benessere.

 Quello che egli chiama capitalismo distribuito è connesso imprescindibilmente con un livellamento delle forme gerarchiche di gestione della vita economica, sociale e politica (cfr. Rifkin, 2010, pg. 503). Certamente, però, è ancora troppo presto per dire se questo modello economico sia del tutto destinato a realizzarsi; molto dipenderà effettivamente dalla capacità dei governi di rappresentare i reali interessi dei cittadini, senza lasciarsi corrompere da potentati che perderebbero i loro guadagni se ci fossero cambiamenti di questo tipo nelle politiche energetiche. Rimane, comunque, il fatto che un altro fattore caratteristico dell’attuale contesto economico – produttivo è la progressiva riduzione dei giacimenti minerari di molte materie prime usate per la produzione dei beni di consumo. Emerge allora con più forza la critica di Latouche (Latouche, 2009, pg. 122):

 Se, infatti, in termini astratti, è certamente possibile concepire un’economia ecocompatibile con l’esistenza di un capitalismo dell’immateriale, questa prospettiva è irrealistica per quanto riguarda le basi dell’immaginario della società di mercato, ovvero la dismisura e la dominazione senza limiti.

Ed è questo tipo di considerazioni che induce ad accogliere con cautela i dati incoraggianti forniti da Rifkin sullo sviluppo di una coscienza biosferica (Rifkin, 2010, pg. 556):

 Nell’aprile 2009 il «New York Times» ha pubblicato in prima pagina un articolo sulla rivoluzione empatica che sta interessando le scuole americane. Laboratori e programmi di sviluppo dell’empatia ormai sono attivi in diciotto Stati, e le prime valutazioni di questi programmi di riforma dell’istruzione sono incoraggianti. Le scuole hanno registrato una decisa diminuzione degli episodi di aggressione, violenza e altri comportamenti antisociali, un calo dei provvedimenti disciplinari, una maggiore cooperazione fra gli studenti, l’adozione di comportamenti prosociali, una maggiore attenzione durante le lezioni, un maggior desiderio di apprendere e un miglioramento delle capacità di pensare in modo critico.

 

POLITICHE INTERNAZIONALI

 Da ciò che è stato descritto, emerge che la questione del modello economico è centrale non solo per la sopravvivenza dei modelli culturali non organici al capitalismo finanziario nelle società occidentali, ma anche rispetto al tipo di relazioni internazionali che gli Stati occidentali intrattengono con gli altri Stati.
D’altronde, tali rapporti sono segnati da ambiguità e contraddizioni che ineriscono anche all’apparato ideologico, e che complessivamente si possono leggere come una incertezza da parte degli occidentali circa il loro ruolo e le loro responsabilità verso gli altri uomini e gli altri popoli. Essa emerge, ad esempio, nei confronti di Stati i cui popoli siano sottomessi a regimi oppressivi, di fronte ai quali le posizioni oscillano tra, ad un estremo, l’interventismo diretto a “esportare la democrazia”, spesso maschera di intenti economici di sfruttamento, e, all’altro estremo, il non-intervento volto a tutelare il diritto di “autodeterminazione” dei popoli, dietro il quale si nasconde talvolta, al contrario che nel primo caso, la mancanza di interessi economici da difendere o da conquistare. Ma la misura di questa incertezza emerge maggiormente nell’analisi della discrepanza che Rawls presenta tra il diritto dei popoli e una prospettiva cosmopolitica (Rawls, 2001, pg. 160):

 La preoccupazione ultima di una prospettiva cosmopolitica è il benessere degli individui, non la giustizia delle società. Secondo questa prospettiva, anche dopo che ciascuna società particolare ha realizzato istituzioni giuste al suo interno, si pone ancora la questione della necessità di un’ulteriore distribuzione globale. Per illustrare la tesi nel modo più semplice, supponiamo due società, ognuna delle quali soddisfi al suo interno i due principi di giustizia esposti in A Theory of Justice. In queste due società, la condizione della persona rappresentativa che sta peggio in una di esse è peggiore di quella in cui si trova la persona rappresentativa che sta peggio nell’altra. […] Il diritto dei popoli è indifferente fra le due distribuzioni. La prospettiva cosmopolitica, dall’altra parte, indifferente non è.

Sicuramente, la prospettiva cosmopolitica ha un peso economico per i cittadini che fa sì che lo Stato non la possa assumere in un orizzonte costituzional – democratico come quello descritto nel secondo paragrafo. Né, tantomeno, proprio per questo, è immaginabile che il diritto dei popoli la assuma, pretendendola da tutti gli Stati che vi aderiscono. Tale ragionamento permette di introdurre un’altra questione trattata da Rawls, che inerisce al rispetto delle democrazie occidentali verso gli altri Stati, ovvero la necessità di costruire un diritto dei popoli non etnocentrico (ivi, pp. 161-162):

 È d’importanza cruciale a questo punto che il diritto dei popoli non richieda alle società decenti di abbandonare o modificare le loro istituzioni religiose per adottare istituzioni di tipo liberale. Abbiamo ipotizzato che le società decenti avrebbero accettato lo stesso diritto dei popoli in vigore fra le società liberali giuste. Un diritto che, proprio per questo, è di portata universale: esso chiede alle altre società solo ciò che queste possono ragionevolmente fare proprio una volta che siano disposte a porsi in un rapporto di equa eguaglianza con tutte le altre società. Non possono sostenere che stare in una relazione di eguaglianza con gli altri popoli è un’idea occidentale!

Emerge chiaramente che il ragionamento per Rawls vale solamente per le società gerarchiche decenti, cioè quelle pacifiche, in cui sono tutelati i diritti umani, e in cui, a differenza che nelle democrazie, non vale il concetto «una persona, un voto», ma i gruppi sono organizzati gerarchicamente, nella convinzione che limitare il processo di consultazione  pubblica ai rispettivi capi consenta di tutelare meglio gli interessi comuni, contro le tendenze egoistiche dei singoli individui. Concepire in questo modo il diritto dei popoli significa quindi rispettare anche le corrispondenti organizzazioni politico – sociali.

 

COME STARE NELL’APORIA DELL’OCCIDENTE

 
Come le analisi qui condotte hanno evidenziato, oggi in molti si rendono conto che il futuro delle nostre società è legato a delle scelte rispetto alle quali da un lato sia le varie fonti tradizionali della moralità, sia le varie forme della cultura laica non forniscono direttive che non siano problematiche, dall’altro in ogni caso queste direttive non dovrebbero essere assunte a livello normativo per rispettare gli orizzonti di senso di tutti.
Ad un livello più profondo, ciò che si sta realizzando è un progressivo svelamento del carattere non – innocente della vita umana in primo luogo per come è condotta dagli occidentali. Seguendo Emanuele Severino, si potrebbe dire che l’uomo con la tecnica, in particolare, cerca di non morire, ma questo provoca sempre morte. Ed emerge così l’Aporia radicale dell’Occidente, un’aporia del senso che investe prima della dimensione politica quella strettamente individuale: è giusto che, in nome dello spinoziano conatus sese servandi et in suo esse perseverandi, l’uomo inevitabilmente perpetui violenza contro le possibilità di vita o la vita stessa degli altri uomini, o degli altri organismi viventi? E se si risponde di no, con quali criteri porre i limiti?
Insomma, in ambito politico, la proposta qui presentata di un nuovo costituzionalismo non è una proposta solo procedurale, ma si incardina nell’Aporia, cioè non rimane nella consapevolezza dell’Aporia e nella perpetuazione della violenza, che può essere rappresentata anche dal dominio della maggioranza, ma pone in evidenza nella legge questa stessa aporia del senso; e lo fa superando in ambito giuridico un’incertezza preliminare fondamentale, cioè decidendo di non sfruttare la propria forza numerica per imporre la propria concezione a livello normativo. Ciò non significa affatto riprendere l’impostazione di Kelsen precedentemente criticata. Infatti, se per Kelsen ogni concezione morale fedele ad un Assoluto di qualsiasi tipo sarebbe incompatibile con la democrazia, qui, invece, si vuole affermare che ad oggi le condizioni sono tali per cui all’interno di ciascuna parte, prima di tutto in ambito laico, si ha la consapevolezza di non riuscire a capire univocamente, con la sola ragione e/o in base ai contenuti tradizionali di verità, quale sia la direzione migliore da prendere, almeno, per taluni gruppi, rispetto a determinati ambiti. La divaricazione oscilla in ambito economico tra produttivismo e antiproduttivismo, con tutti i problemi relativi al mantenimento di forme di Welfare State e alla tutela per esempio di quelli che taluni chiamano diritti degli animali, e in ambito politico tra cosmopolitismo, processi di continentalizzazione e tutela esclusiva degli interessi di Stato, con nuove forme di nazionalismo xenofobo. E in tale contesto l’impostazione relativistica kelseniana sarebbe la più dannosa per la compattezza del corpo sociale.
Temporaneamente, finché non ci sarà una comprensione netta di ciò che sia giusto fare, innanzitutto all’interno dei vari  gruppi, e magari in seguito a confronti fecondi, occorre a) adottare il cosiddetto «principio di precauzione», ad esempio attuando innanzitutto in Occidente gli ultimi quattro punti del programma di transizione verso la decrescita presentato da Latouche, a cui si è fatto precedentemente riferimento, b) realizzare il nuovo modello di costituzionalismo.
Questo, probabilmente, permetterà di avere minori tensioni sociali, renderà più “facile” il processo educativo per i motivi suddetti, e creerà un contesto in cui l’adesione ad un determinato gruppo sarà sempre più legata ad una convinta condivisione di valori. Solo uomini più coerenti di oggi, di fronte allo svelamento della soluzione all’Aporia, potranno accoglierla e realizzarla in prima persona, in tutte le sue sfaccettature e con tutte le sue implicazioni, anche gravose.

 

 

 

Bibliografia essenziale

 

BENEDETTO XVI, Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011
FABIETTI U. (1998), L’identità etnica, Carocci, Urbino, 12ª ristampa 2010.
HABERMAS J., TAYLOR C. (2008), Multiculturalismo, trad. di Leonardo Ceppa e Gianni Rigamonti, Universale Economica Feltrinelli, Milano (ed. or. 1996).
KELSEN H. (2010), I Fondamenti della democrazia in La democrazia, a cura di M. Barberis, Il Mulino, Urbino (ed. or 1955-1956). 
LATOUCHE S. (2009), La scommessa della decrescita, trad. di Matteo Schianchi, Universale Economica Feltrinelli, Milano (ed. or. 2006).
QUAGLIONI D. (2004), La sovranità, Biblioteca Essenziale Laterza, Bari.
RAWLS J. (2001), Il diritto dei popoli, a cura di Sebastiano Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino (ed. or. 1999).
RIKFIN J. (2010), La civiltà dell’empatia, trad. di Paolo Canton, Mondadori, Milano (ed. or. 2009)
STEIN E. (1999), Una ricerca sullo Stato, a cura di Angela Ales Bello, Città Nuova Editrice, Roma (ed. or. 1970).

 

Ipse dixit  
  "Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta" (Friedrich Nietzsche) *** "Io ho un solo amico, è l'eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace". (Soren Kierkegaard) *** "Un grande uomo costringe gli altri a spiegarlo" (Georg Wilhelm Friedrich Hegel) *** "Il mondo non è nè vero nè reale, ma vivente" (Gilles Deleuze) *** "Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d'essere scesi sul fondo dell'abisso, ma quando risaliamo, le gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono. Crediamo d'avere scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra, intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato". (Maeterlinck)  
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