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Nuovo costituzionalismo e multiculturalismo II

Nuovo costituzionalismo e multiculturalismo
di Vito Antonio Girardi


IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO

 
Gli studi antropologici mostrano la problematicità del concetto di identità etnica, cosicché insistere troppo sul concetto di rispetto per l’altra etnia può condurre al risultato, spesso non desiderato, di solidificare una realtà liquida, in cui, invece, i vissuti individuali degli uomini sono molto importanti per la loro percezione di sé. È indubbio, però, che complessivamente la cultura e gli usi degli uomini sono radicati o risentono molto della tradizione dei rispettivi popoli di appartenenza, cosicché se un uomo eccede storicamente il popolo cui appartiene, tuttavia le relazioni che egli instaura risentono del proprio contesto etnico – culturale. E da ciò emerge che la genesi e l’esistenza della mente umana non è monologica, ma dialogica; e secondo Charles Taylor ciò si manifesta specialmente nei processi di definizione della propria identità, in cui si dialoga o ci si scontra con gli “altri significativi” (G. H. Mead), fino al punto che nelle odierne società, in cui l’identità non è più solo derivata socialmente in quanto basata su categorie sociali, ma spesso rivendica la propria autenticità, nelle relazioni interpersonali e in ambito sociale è aumentata la domanda di riconoscimento (cfr. Habermas, Taylor, 2008, pg. 17-20). Scrive il filosofo (ivi, pg. 18):

 L’ideale monologico sottovaluta troppo il posto che occupa la dialogicità nella vita umana, cerca di confinarla il più possibile nel momento della genesi e dimentica che la nostra concezione dei beni della vita può essere trasformata dal fatto di goderne insieme a quelli che amiamo, e che certi beni ci sono accessibili solo attraverso questo godimento comune.     

 E proprio per questo il riconoscimento richiesto non è, nella maggior parte dei casi, “semplice” rispetto. Lo stesso Taylor intravvede rischi di esagerazione in queste richieste, e infatti propone non giudizi di uguale valore inautentici, ma un atteggiamento presuntivo, cioè di apertura ad uno studio che permetta di capire il diverso, spostando sicuramente gli orizzonti (cfr. Habermas, Taylor, 2008, pg. 60-62).
È alla luce di questo che emerge la difficoltà di trovare forme democratiche condivise, perché a) non tutti i cittadini di uno Stato sono propensi ad aperture presuntive, il che può essere anche non giustificabile, ma è un dato di fatto di cui il non tenere conto costituirebbe una sottovalutazione delle possibili conseguenze, b) le richieste di riconoscimento riguardano naturalmente libertà la cui manifestazione “cade sotto gli occhi” di membri della società che ne possono essere genericamente “turbati”, c) molte di queste richieste investono la sfera delle usanze sociali, dei comportamenti interpersonali all’interno del gruppo di appartenenza, laddove è difficile controllare la libera scelta di un individuo di aderire a comportamenti considerati magari non rispettosi della dignità umana dal senso comune della società o da parti rilevanti di essa, d) porre la richiesta di pieno riconoscimento alla base di rivendicazioni legislative pone l’interlocutore che non condivide o non è certo della validità della richiesta nella situazione di non poter permettere che a livello legislativo vengano approvati provvedimenti che garantiscano certe libertà individuali, poiché ciò significherebbe conferire valore morale alle norme, e quindi educativo. Il fatto è che molti non accettano un impianto costituzionalista di tipo kelseniano e attribuiscono valore morale alle norme, non accettando quindi cambiamenti contrari alla propria impostazione morale.
Il punto b) è probabilmente il più delicato e difficile da trattare in quanto caratterizzato meno degli altri da elementi di carattere oggettivo, anche perché il momento della vista svolge un ruolo chiave da un lato nella possibile empatia con il diverso, dall’altro sia nella contrapposizione al diverso, sia nel suo riconoscimento per assuefazione.
Rispetto al punto d), la soluzione è tener separato l’ambito della norma dall’ambito della morale, anche perché un gruppo portatore di una visione morale che denunci il carattere impersonale delle norme costituzionali, in mancanza di un riferimento ultimo di esse al diritto naturale, rappresentato in corrispondenza alla propria concezione morale, attribuisce allo Stato un compito, ovvero quello di definire i valori, che non lo caratterizza. Scriveva la santa Edith Stein (1891-1942) nella sua analisi fenomenologica sullo Stato (Stein, 1999, pg. 99):

 Non è prescritto allo Stato, in conformità al suo senso, che esso si ponga al servizio della legge morale, che debba essere uno «Stato etico».

 La conquista di questa separazione tra diritto e morale nel quadro dell’odierno costituzionalismo può avvenire solo se da tutte le parti ci si rende conto di quanto, al di là delle apparenze, tale separazione convenga alle parti stesse perché sia eliminata confusione dal quadro socio – politico ed esse possano verificare la spontaneità delle condotte etiche individuali, non più determinate da imposizioni esterne, chiarendo a se stesse la propria capacità di presa sulle scelte morali individuali e quindi approntando strategie conseguenti per cercare di avere un effettivo successo.
Invocare, invece, come fa John Rawls (1921-2002) (cfr. Rawls, 2001, pp. 180-181), il principio di reciprocità tra le parti nel liberare il campo delle norme relative quantomeno ai diritti di libertà da imposizioni o mancati riconoscimenti, legati alle ragioni del proprio credo etico, sembra ad oggi illusorio, giacché nessuna delle parti, tristemente, si muove per prima. Edith Stein, pur non riconoscendo a livello ontico la necessità che lo Stato abbia a proprio fondamento una comunità di popolo, fa riferimento all’Etica Nicomachea di Aristotele, in cui il filosofo sostiene – scrive Stein (Stein, 1999, pp. 32-33):

 […] che la filia più che la giustizia tiene uniti gli Stati e che la sola giustizia – senza la filia – non riuscirebbe in quello scopo. Il significato di filia nel contesto, dal quale questo brano è tratto, è certamente molto fluttuante. Ma un significato fondamentale, che in ogni caso si vuole esprimere, è quello della coscienza della comunità.

    D’altro canto, le richieste di riconoscimento possono cercare a livello normativo solo il rispetto, mentre anch’esse debbono camminare il percorso faticoso del dialogo e della discussione sociale quando vogliano trovare pieno riconoscimento di valore nella società, e questo significa lasciare libertà di espressione ai cittadini, senza considerare eventuali opinioni di critica come offensive di per sé e come tali da sanzionare. Scrive Jürgen Habermas a proposito (Habermas, Taylor, 2008, pg. 89):

 Il punto di vista ecologico della conservazione delle specie non può essere trasferito alle culture. Le tradizioni culturali, e le forme di vita in esse articolate, si riproducono di regola per il fatto di convincere tutti coloro le cui strutture della personalità ne risultano influenzate, motivandoli ad assimilarle e a svilupparle in una maniera produttiva.

 Questa è la replica che fornisce a Taylor, il quale accusa il liberalismo procedurale di essere inospitale verso la differenza, nella misura in cui, occupandosi di tutelare solo la libertà privata, il benessere e la sicurezza individuale, «non sa trovare un posto per ciò a cui veramente aspirano i membri delle società distinte, cioè la sopravvivenza» (Habermas, Taylor, 2008, pg. 48). È vero anche, però, che ciò che Taylor afferma significa anche, al di là delle eventuali intenzioni dell’autore, che lo Stato non può vietare determinate pratiche di vita per “proteggere” gli individui dai loro gruppi di appartenenza e dalle loro culture, giudicate “contrarie alla dignità umana” dall’alto della propria ragione di stampo illuminista. E ciò proprio alla luce del fatto che il senso della vita per un uomo può più che legittimamente non corrispondere al concetto di libertà così come formulato dalla cultura occidentale secolarizzata, in accordo con la tesi di Taylor precedentemente citata. Così si è risposto al punto c).
Ora, però, per affrontare al meglio il punto a) e chiarire alcuni passaggi del discorso precedente, sembra opportuno compiere una digressione sul costituzionalismo, che faccia brevemente il punto su alcune questioni del dibattito attuale. 


continua a leggere -  Sul costituzionalismo e alcune criticità connesse



 
Ipse dixit  
  "Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta" (Friedrich Nietzsche) *** "Io ho un solo amico, è l'eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace". (Soren Kierkegaard) *** "Un grande uomo costringe gli altri a spiegarlo" (Georg Wilhelm Friedrich Hegel) *** "Il mondo non è nè vero nè reale, ma vivente" (Gilles Deleuze) *** "Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d'essere scesi sul fondo dell'abisso, ma quando risaliamo, le gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono. Crediamo d'avere scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra, intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato". (Maeterlinck)  
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