"Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile"
Da "La Foglia" U. Saba
IMMOBILE
di Giuseppe Pischetola
Proscenio: La stanza e l’ombra
“Io sono del mio diletto e la sua brama è rivolta verso di me. Vieni mio diletto, andiamo nei campi, pernottiamo nei villaggi: di buon mattino vedremo se gemma la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melagrani: là ogni mia carezza sarà per te. Le mandragole spargono profumi: presso di noi vi sono frutti squisiti: nuovi e vecchi, o mio diletto, li ho serbati per te”.
Carlo chiuse la Bibbia, stringendola tra le mani. Gli occhi avevano preso a lacrimare. Il riverbero fioco di una candela rendeva la sua sagoma, riflessa sulla parete della stanza, più grande e più curva. Nel sussulto amaro del pianto, un dolore che parea consumato, tornava vivo, aspro e profondo. Si riconosceva in un tempo passato che non era bastato. Ripose la Bibbia con cura, lasciò a fatica la sedia e si sentì tradito nelle sue forze.
L’aria era fresca. La sera, limpida e chiara, ristorò il suo cuore. Lo rincuorò. Amaramente. Non era dolore. Era un sogno. Era solo il suo sogno.
Scenario: Il sogno
A passi pesati, dal lavoro a casa, quasi non gli pareva di andare avanti. Camminava si, ma gli sembrava di essere immobile. Ai suoi occhi, lo scorrere della gente e la sua immagine immobilizzata. Viva solo nel tempo di ieri. Come se fosse il suo passato a muoversi, portandoselo dietro. E lui si lasciava portare.
Tutto cominciò a girargli intorno. Lui immobile e il resto si muoveva intorno.
Il girotondo era nella sua testa.
Atto Unico
Scena I
Immobile.
Primo giro.
Gli passò davanti un bambino con i capelli rossi, il visetto stralunato e un rossore giocoso sulle gote. Aveva inseguito farfalle in una campagna qualunque, le aveva catturate. Ma non voleva mica fargli del male. Tornato a casa, le poggiava delicatamente una ad una sul palmo delle sue mani giunte e, avvicinatosi alla finestra, soffiava e le lasciava volare. Le liberava nel cielo. Restava così a guardarle. Era bello vederle volare via. Svanire nel cielo azzurro, che era più azzurro perché i suoi occhi erano puri. Poi, scendeva dalla sedia su cui era salito per raggiungere la finestra. Si voltava. Vedeva suo padre e sua madre. E ripensava alle farfalle.
Scena II
Immobile.
Secondo giro.
Vide un volo d’uccello di carta. Non era proprio un volo: giocava col vento, leggero. Era una letterina d’amore. Sospesa nell’aria, la seguiva una rosa a petali sparsi. La sua prima letterina. Si era innamorato di una compagna di banco. Certo non si poteva parlare d’amore. Non se ne poteva parlare perché era sensazione nuova e pura. Era così leggera. A lungo Carlo cercò di afferrarla, avido di riscoprire ciò che il suo cuore diceva in quello spazio libero nell’aria, proprio davanti ai suoi occhi. Ma non ci riuscì. Il bambino aveva le braccia incrociate poggiate sul banco, la testa china riversa su un lato. Mentre lei leggeva, una lacrima gli rigò il viso. Aspettò che la lacrima raggiungesse le labbra. Ne assaporò tutta la profonda dolcezza. Non sapeva spiegarsi un sapore così forte. Era la prima lacrima d’amore. Aveva il sapore di un sogno in una goccia di rugiada, il calore del cuore che si infiamma, l’amarezza che si lega all’amore. La dolcezza di un cuore puro.
Scena III
Immobile.
Terzo giro.
Si allontanava l’infanzia e i nuovi fuochi avvampavano di un ingenuo rossore. Tutt’intorno girava un bacio vorticoso, labbra contro labbra. Un vortice di sensi. Lo vedeva. Due ragazzi su una panchina. Lei guardava e baciava con più intensità. Con più fervore. A passi mesti e dubbiosi Carlo tornava e si ripeteva:”Cosa fanno? Questo è un bacio?”. E gli dispiacque un po’. Intorno, tanti baci. Tanti moti veloci. Braccia che si intrecciavano in un moto forte e fisico. “E’questo l’amore?”. Di soppiatto lo sfiorò la delusione. Ancora non lo sapeva ma, il tempo dei baci rossi sulle guance era finito.
Scena IV
Immobile.
Quarto giro.
Due cristalli gli avevano rapito l’anima.
Per sempre.
Gli giravano intorno.
Fuoco nel cuore.
Nel corpo l’ardore.
La purezza non era svanita.
I sorrisi, le corse, i baci rubati.
Esplosione.
Ne era certo. L’aveva incontrato.
Il suo grande amore.
L’avrebbe sfinito.
Rapito.
Finito.
Scena V
Immobile.
Quinto giro.
Un treno scalcinato. Un biglietto senza destinazione. Solo sorrisi e baci. Scendere all’improvviso. Ridere d’amore al controllore. Fermarsi in un posto che pareva desolato e riempirlo di baci e sospiri. Fino a sfinirsi. Senza timore. Volava quel bacio. Afferrarlo non era più possibile. Era lì. Allora. Fermo. Pieno in sé. Nessuno poteva vietarlo. Nessuno potrà mai ridarlo. Come neve che si scioglie e si scopre acqua pura, per non tornar mai più neve. Ma ghiaccio.
Scena VI
Immobile.
Sesto giro.
Solo.
Un viale lungo e polveroso. Assente. Buio. Carlo cercava di socchiudere gli occhi. Lasciarsi trasportare dal silenzio. Rinchiudersi nel silenzio. Ostile. Uno sguardo lontano, freddo e scostante, lo scrutava girandogli intorno. Tra parole che non eran più amore. Un rifugio il silenzio. D’incanto una nota, poi un’altra, poi una pioggia di note. Un valzer di Chopin cominciò a piovergli addosso. Tra le note, che leggere gli rigavano il viso, una luce delicata. Il riverbero fioco di una candela. Dov’era la strada?
Epilogo
“ Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sopra il tuo braccio. Perché forte è l’amore come la morte, tenace come l’inferno la gelosia: vampe di fuoco sono le sue vampe, le sue fiamme, fiamme divine. Le grandi acque non saprebbero spegnere l’amore, ne i fiumi sommergerlo. Chi, dando ogni sua sostanza, lo volesse acquistare, sarebbe disprezzato”.
Era un sogno.
Solo un sogno.
D’amore.
Ora i suoi occhi,
svaniti d’incanto,
presenti al presente,
sono sfiniti.
La notte è dolce.
Il cielo,
generoso.
La luna,
un pallido ricordo.