IL VELOCE VUOTO DEL VOLO
di Giuseppe Pischetola
I
Il treno, come ogni giorno, sta rallentando.
E’ la mia fermata.
Non siamo poi in tanti a scendere.
Ci disperdiamo rapidamente.
Cammino veloce.
Non conosco che sporadici saluti vacui.
Vacuamente rispondo in un accenno di sorriso quasi pianto.
Forse dovrei cercare di fermarmi.
Di fare conversazione.
Un tempo l’avrei cercata con un’ostinazione
quasi disperata.
Avrei cercato di farmi conoscere.
Di conoscere l’altro.
Di parlare.
Avrei cercato di prolungare
il più a lungo possibile quella vicinanza,
sperando in cuor mio che la serata non finisse mai.
Ora non più.
Oggi
le mie orbite vuote
vedono troppo chiaramente rispetto ad allora.
E mi incammino verso casa,
chiuso nel silenzio delle mie tasche.
Per quanto sia breve,
che la strada termini presto.
Mi sembra immensa.
E’ paradossale ma,
quante cose si potrebbero dire a proposito del silenzio.
II
E così
ogni sera, al rientro,
avverto un’inspiegabile sensazione di freddo.
Le strade lastricate
sono sempre umide.
Come se un pianto infantile scoppiasse ogni sera.
E ci devi camminare su.
Lo devi calpestare.
Sono ben coperto
eppure ho freddo.
Un freddo che non vuole passare.
Il freddo di abbracci perduti.
Svaniti
nel sopraggiungere di un crepuscolo che non fa dormire.
Rifuggo le luci dei lampioni
nel borgo antico.
Sogno di tenerezza.
Di un silenzio che basta a se stesso.
Se si è in due.
Ma
nella malinconia di disperato unico spettatore,
diventano terribili moniti di solitudine irrisolta.
E creano turbamento.
E allora li rifuggo.
Per quanto li abbia amati e infondo
li ami ancora.
Ma non li si può amare da soli.
Parlano di troppi sospiri.
Di troppi abbracci.
Di intimità sussurrate di vita.
Mi fanno sentire ancora più solo.
E non posso,
nascosto agli occhi del mondo,
fingere a me stesso di non piangerne
III
Rientro a casa,
girando velocemente la chiave nella toppa.
Come un rifugiato che finalmente può nascondersi.
Sensazione illusoria.
Il tempo di rinchiudersi.
Accendo le luci.
Le pareti.
Gli arredi.
Tutti questi maledetti libri.
E un grande interminabile silenzio.
Non ho il coraggio di pensare.
Chiudo immediatamente le imposte.
Non è casa.
Non lo è più.
Lo è stata nel tempo della condivisione e
nel lunghissimo tempo dell’attesa.
Attesa di ritorni.
A ogni ritorno un nuovo abbandono.
Non posso più essere abbandonato.
Chi aspettavo non tornerà mai più.
Forse l’ho soltanto immaginato
questo sentire.
Parlare.
Tacere.
Questo guardare incantato.
Forse non è mai esistito.
Fuori la luce è di un tenue arancio
che fingo smorto.
Per sentirmi più cinico.
Ringrazio Dio per la cena
Mangio da solo.
Da due anni.
Non devo guardarmi intorno.
Ogni particella parla.
Ogni micro dettaglio in me diventa macroscopicamente schiacciante.
Non devo immaginare.
Solo mangiare alla svelta.
Finche sarà possibile.
Mi sfugge di mano anche questo trascurabile dettaglio.
IV
Eppure ricordo,
come vago sentire di un profumo mai sentito,
in un tempo lontanissimo,
che il dolore di oggi era la poesia di ieri.
Il tempo ha impolverato tutti i chiavistelli
ma non ha impedito loro di saltare
in un dolore rivelato.
Ho passato molto tempo a cercare di rinchiuderli.
Ora so che non posso.
So che il tempo lavico del dubbio
si è incenerito
in una ruvida certezza.
Ora devo inevitabilmente rispondere
al bambino che ero e che ho abbandonato come un cane.
Bambino sognante.
So che devo dirgli che ho fallito.
Che non ho realizzato nulla
di tutto ciò che gli avevo promesso.
E so che ne morirà. Ed io con lui.
Gli ho appena accennato qualcosa.
Qualche piccolo brandello di cielo nero.
Lo ascolto piangere ogni notte.
E ne soffro.
Perché so che dovrò arrivare fino alla fine del racconto.
Proteggerlo con la menzogna non è più possibile.
Perché proprio con la menzogna l’ho ucciso.
Giorno dopo giorno.
V
Il sole ha bruciato tutti i risvegli.
Ha esagerato e
non ha lasciato più aria per respirare.
Poi si è allontanato per sempre.
Lasciandomi un paesaggio affaticato.
Bisognerebbe cercare acqua
per sgranire le zolle nere.
Non dover nascere è un lusso
che per i nati è eterna condanna.
E condanna per chi ha provato a convincerci d’amore.
Simulazione di saggio conteggio.
Di straziante materia nera.
Limiti di esistenze estreme.
Malcelate pure moderazioni.
Sulla mia retina,
troppo abile non per merito ma per sventura,
si imprimono a fuoco.
Mi sento un angelo con il privilegio di precipitare
piuttosto che un verme con l’ardire del volo.
Il sole ha bruciato questa semina tristemente malata.
Il letto è un quadrato nero
in cui, socchiusi gli occhi,
è già incubo prima del sonno.
E mille corazze, martelli,
mille sferzate di certezze ridicole,
nell’anima restituiscono solo sgomento.
L’aver perduto è
il massimo male per chi è già nato sconfitto.
VI
Come improvvise voragini
nella terra smorta e sfinita,
si inarcano vortici di silenzio.
E avvolto in uno strano turbinoso nulla,
perdo le quattro dimensioni.
E la quinta.
La mia.
Staccato come anello da ogni catena-legame,
roteo nel perché.
Disintegrazione di ogni appartenenza.
Essere parte di qualcosa.
Di qualcuno.
Desertificazione.
E’una sensazione
che aveva già il bambino randagio che ero.
E che continuo ad avere oggi.
D’improvviso,
dalla calma più assoluta
mi trapassano folate di nulla.
E mi sento fuori
da ogni contesto-senso possibile.
Mi capita a volte.
Poi passa.
E torno a credere
che esista qualcosa in cui c’entro anch’io.
Non il roboante perché di tutte le cose.
Solo il semplice chiedermi dove io sia.
VII
Afferro
uno strascico di volo di rondine.
Lontana.
E mi lascio trasportare
dall’unica tremenda esperienza-idea
che ho dell’amore.
Donare e svanire.
Lo spazio rapito lasciato
nel veloce vuoto del volo.
Alle spalle di chi va per non tornare.
L’aria è teneramente pianto e
sussurra il mio amore perduto.
Scivolo.
Inciampo nel delicato desiderio
che chi amo stia bene.
Che sia felice.
Consapevole oramai
che per esserlo non devo esserci io.
Immaginazione di suoi nuovi sorrisi.
Baci.
Abbracci.
Intese.
Senza un frapporsi che sarei intralcio.
E’ un modo,
sconosciuto alla vita del mio amore,
di amarla.
Ancora
E ancora.
E ancora.
In una interminabile esplosione calma e disperata.
Che non avrà mai fine.